“Ciò che è non può non essere; ciò che non è non può essere”.
Nel VI secolo a.C., Parmenide di Elea enuncia un principio di realtà che era già stato ampiamente esplorato millenni prima nella Bhagavad-gita, testo di riferimento per tutta la cultura indovedica. Confondere l’impermanente con il reale e il reale con l’impermanente è un equivoco fatale che condanna a una serie infinita di errori e conseguenti frustrazioni.
La realtà è eterna per definizione, in quanto trascende e sottende tutte le trasformazioni che il tempo imprime agli agglomerati della materia. I nostri corpi sono un esempio lampante di tali agglomerati e, per questa loro natura temporanea, non dovrebbero essere considerati reali nel pieno senso della parola.
È il nostro sé spirituale a possedere le caratteristiche del reale e quindi dell’eterno, ma a causa della falsa identificazione con i corpi che abitiamo, siamo propensi a proiettare il sano desiderio di eternità su una struttura, quella fisica, che mai potrà esaudirlo. È da questo equivoco che nasce la paura della morte.
Vivere nella prospettiva dell’eternità non significa soltanto fugare questa ancestrale paura. Significa anche imparare ad agire correttamente in ogni circostanza, avendo superato gli attaccamenti tipici di una mentalità egoica e ristretta. Significa cogliere a pieno il frutto della vita, gustando già in questa dimensione immanente il nettare della gioia e dell’amore spirituali.”