L’esperienza estetica, quando è autentica, è un’esperienza vivificante che dall’intorpidimento ci conduce all’appercezione vivida e cinestetica, alla comprensione e al riconoscimento di realtà che, seppur mai essenzialmente perdute, erano state smarrite e giacevano sopite nelle nostre profondità.
Ogni civiltà ha espresso una sua estetica, ma questa ha mantenuto autentico valore solo quando intimamente connessa alla sua più stringente conseguenzialità: l’etica. Infatti, il culto di una bellezza privata della virtù conduce a devianza e perversione.
L’estetica del Mahabharata è fondata sul divino ordine socio-religioso volto al benessere e all’evoluzione di tutte le creature: il daivi varna-ashrama-dharma. Questo principio universale costituisce un’ulteriore unicità di questa grande opera, per la quale si distingue dalla concezione sociale separatistica tipica del mondo greco antico, che ancora caratterizza la nostra mentalità occidentale. Benessere universale, non-violenza, tolleranza, soprattutto se vissuti in uno spirito di offerta al Divino, sono principi che aprono a quello che è il fine naturale dell’etica: la trascendenza, la riscoperta della nostra natura spirituale e della relazione d’Amore incondizionato che ci unisce a Dio. Meta questa che, come in filigrana, attraversa tutto il Mahabharata, per emergere in tutto il suo vigore nel gioiello della Bhagavad-gita che, come uno scrigno, questa grande epica custodisce.
Lettura e commento di Vana Parva (Il Libro degli Insegnamenti della Selva) capp. 175-20